giovedì 31 maggio 2012

Italo Calvino - L’avventura di due sposi


Italo Calvino 
L’avventura di due sposi
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei.
Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione,
in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette,
cioè  alle  volte  un  po’  prima  alle  volte  un  po’  dopo  che  suonasse  la  sveglia  della
moglie, Elide.
Spesso  i  due  rumori:  il  suono  della  sveglia  e  il  passo  di   lui  che  entrava  si
sovrapponevano  nella  mente  di  Elide,  raggiungendola  in  fondo  al  sonno,  il  sonno
compatto  della  mattina  presto  che  lei  cercava  di  spremere  ancora  per  qualche
secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto  di  strappo  e  già
infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli  occhi.  Gli  appariva  così,
in  cucina,  dove  Arturo  stava  tirando  fuori  i  recipienti  vuoti  dalla  borsa  che  si
portava  con  sé  sul  lavoro:  il portavivande,  il  termos,  e  li posava sull’acquaio. Aveva
già  acceso  il  fornello  e  aveva  messo  su  il  caffè.  Appena  lui  la  guardava,  a  Elide
veniva  da  passarsi  una  mano  sui  capelli,  da  spalancare  a  forza  gli  occhi,  come  se
ogni volta si vergognasse un po’ di questa prima immagine che il marito aveva di lei
entrando  in  casa,  sempre  così  in  disordine,  con  la  faccia  mezz’addormentata.
Quando  due  hanno  dormito  insieme  è  un’altra  cosa,  ci   si  ritrova  al  mattino  a
riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.
Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè,
un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia
per  uscire  dal  sonno  prendeva  una  specie  di  dolcezza  pigra,  le  braccia  che
s’alzavano  per  stirarsi,  nude,  finivano  per  cingere  il  collo  di  lui.  S’abbracciavano.
Arturo  aveva  indosso  il  giaccone  impermeabile;  a  sentirselo  vicino  lei  capiva  il
tempo  che  faceva:  se  pioveva  o  faceva  nebbia  o  c’era  neve,  a  secondo  di  com’era
umido  e  freddo.  Ma  gli  diceva  lo  stesso:  –  Che  tempo  fa?  –  e   lui  attaccava  il  suo
solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli
erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo
di  fabbrica,  diverso  da  quello  di  quando  c’era  entrato  la  sera prima,  e  le  grane  sul
lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via.
A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un
po’  rabbrividendo,   e  si  lavava,  nello  stanzino  da  bagno.   Dietro  veniva  lui,  più  con
calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e
l’unto  dell’officina.  Così  stando  tutti  e  due  intorno  allo  stesso  lavabo,  mezzo  nudi,
un  po’  intirizziti,  ogni  tanto  dandosi  delle  spinte,  togliendosi  di  mano  il  sapone,  il
dentifricio,  e  continuando  a  dire  le  cose  che  avevano  da  dirsi,  veniva  il  momento
della  confidenza,  e  alle  volte,  magari  aiutandosi  a  vicenda  a  strofinarsi la schiena,
s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati.
Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze,
la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e
sporgeva  il viso  allo  specchio del  comò,  con  le mollette  strette tra le labbra. Arturo
le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando,
e ogni volta pareva un po’ impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide
era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e
già la si sentiva correre giù per le scale.
Arturo  restava  solo.  Seguiva  il   rumore  dei  tacchi  di  Elide  giù  per  i  gradini,  e
quando  non  la  sentiva  più  continuava  a  seguirla  col  pensiero,  quel  trotterellare
veloce  per  il  cortile,  il  portone,  il marciapiede,  fino  alla  fermata del tram. Il tram lo
sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona
che  saliva.  “Ecco,  l’ha  preso”,  pensava,  e  vedeva  sua  moglie  aggrappata  in  mezzo
alla  folla  d’operai  e  operaie  sull’”undici”,  che  la  portava  in  fabbrica  come  tutti  i
giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra,  faceva  buio,  entrava  in
letto.
Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo,
era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte,
per  bene,  ma  dopo  allungava  una  gamba  in  là,  dov’era  rimasto  il  calore  di  sua
moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto
dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del
corpo  di  lei,  e  affondava  il  viso  nel  suo  guanciale,  nel  suo  profumo,  e
s’addormentava.
Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva
acceso  la  stufa,  messo  qualcosa  a  cuocere.  Certi  lavori  li  faceva  lui,  in  quelle  ore
prima  di  cena,  come  rifare  il   letto,  spazzare  un   po’,  anche  mettere  a  bagno  la  roba
da  lavare.  Elide  poi  trovava  tutto  malfatto,  ma  lui  a  dir  la  verità  non  ci  metteva
nessun  impegno  in  più:  quello  che  lui  faceva  era  solo  una  specie  di  rituale  per
aspettare  lei,  quasi  un  venirle  incontro  pur  restando  tra  le  pareti  di  casa,  mentre
fuori  s’accendevano  le  luci  e  lei  passava  per  le  botteghe  in  mezzo  a
quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la
spesa alla sera.
Alla  fine   sentiva  il  passo  per  la   scala,  tutto  diverso  da  quello  della  mattina, 3
adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della
spesa.  Arturo  usciva  sul  pianerottolo,  le  prendeva  di  mano  la  sporta,  entravano
parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto
che  lui  levava  la  roba  dalla  sporta.  Poi:  –  Su,  diamoci  un  addrizzo,  –  lei  diceva,  e
s’alzava,   si  toglieva  il  cappotto,  si  metteva  in  veste   da  casa.  Cominciavano  a
preparare  da  mangiare:  cena  per  tutt’e  due,  poi  la  merenda  che  si  portava  lui  in
fabbrica  per  l’intervallo  dell’una  di  notte,  la  colazione  che  doveva  portarsi  in
fabbrica  lei  l’indomani,  e  quella  da  lasciare  pronta  per  quando  lui  l’indomani   si
sarebbe svegliato.
Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa
doveva  fare. Lui  invece  era  l’ora  in  cui  era  riposato,  si dava attorno, anzi voleva far
tutto  lui,  ma  sempre  un  po’  distratto,   con  la  testa  già  ad   altro.  In  quei  momenti  lì,
alle  volte  arrivavano  sul  punto  di  urtarsi,  di  dirsi  qualche  parola brutta, perché lei
lo  avrebbe  voluto   più  attento  a  quello  che  faceva,  che  ci  mettesse  più  impegno,
oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione.
Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa
fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare.
Apparecchiata  tavola,  messa  tutta  la  roba  pronta  a  portata  di  mano  per  non
doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e
due d’avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il
cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano.
Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere
se  ogni  cosa  era  in  ordine.  S’abbracciavano.  Arturo  sembrava  che  solo  allora
capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna
della bici e scendeva attento le scale.
Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il
marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era
già dopo il gasometro. Elide  andava a  letto, spegneva la  luce. Dalla propria  parte,
coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui,
ma  ogni  volta  s’accorgeva  che  dove  dormiva  lei  era  più  caldo,  segno  che  anche
Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.


Da: Italo Calvino, L’avventura di due sposi, in I racconti, Einaudi,Torino, 1976 

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