mercoledì 7 marzo 2012

Giovanni Verga - Rosso Malpelo

Pubblicata nel 1880 nella raccolta Vita dei campi, questa novella
è considerata la più rappresentativa del Verismo verghiano. In essa lo scrittore, attraverso la vicenda del protagonista Rosso Malpelo, un povero ragazzo orfano dai capelli rossi che lavora in una
cava di sabbia della Sicilia, descrive la durezza delle condizioni di
vita e la realtà di sfruttamento della gente siciliana.



Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi;
rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva
di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa
lo chiamavano Malpelo, e persino sua madre, col sentirgli dir sempre
a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa
con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era
anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio,
per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti
e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio
che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti
schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi; allorché
se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al
mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in
crocchio, la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava
a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi
quel po’ di pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno
gli diceva la sua, motteggiandolo e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava,
fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di
lagnarsi.
Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, ché la sua sorella s’era
fatta sposa e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.
Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato
e la Carvana tanto che la cava dove lavorava la chiamavano
«la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma
lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.[...]
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in
corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello
di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava a esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o
che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato
lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come
se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a
modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava
che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava
gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. [...]
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere
un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il
quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore e non poteva
far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello
di rena in spalla, arrancava in modo che gli avevano messo nome
Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane
se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi
il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo
e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava
più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: «To’, bestia!
Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non
ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da
quello!».
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e
dalle narici: «Così come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a
darne anche tu!». Quando cacciava un asino carico per la ripida salita
del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito , curvo
sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia,
col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli
stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due
per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva
sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che
ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio:
«L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse
picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a
morsi».
Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte
che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno
addosso».
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento,
a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva
coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. «La rena
è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce; «somiglia a tutti gli altri,
che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in
molti, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli
non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena
se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il
ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: «Taci, pulcino!», e se Ranocchio non
la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio:
«Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la sua mezza
cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva
nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo» .
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico
di badile, o di cinghia da basto a vedersi ingiuriato e beffato
da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici
ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone
lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione
di busse non gliela aveva levata mai, il padrone; ma le busse
non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci
avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi
anche quando il colpevole non era stato lui. Già se non era stato lui
sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe
stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo
scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: «A
che giova? Sono malpelo!», e nessuno avrebbe potuto dire se quel
curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio o di
disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza
o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva
avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato
sera, appena arrivata a casa con quel suo visaccio imbrattato di
lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa, scoprendolo
sull’uscio in quell’arnese ché avrebbe fatto scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la madre era
sempre da questa o da quella vicina, e quindi andava a rannicchiarsi
sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica,
in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita
per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non
avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar
la caccia alle lucertole e alle altre povere bestie che non gli avevano
fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le
beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come
quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e
da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla
prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici
come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto,
cencioso e lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta
per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci
di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono
degli asini che lavorano nelle cave per anni e anni senza uscirne mai più, e in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è a picco, ci si calan
colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero,
comprati a dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla
Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora
buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; e se veniva fuori dalla
cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla
fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio,
e lavorare cantando sui ponti in alto, in mezzo all’azzurro del
cielo, col sole sulla schiena, – o il carrettiere, come compare Gaspare,
che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso
sulle stanghe colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno
per le belle strade di campagna; – o meglio ancora, avrebbe voluto
fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto
i folti carrubbi e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli
sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel
mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio
del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della
rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in
bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero
finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il
quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio
aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino,
e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sottoterra,
dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le
braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto
delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là,
sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre
riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati,
o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora,
senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati,
e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano
inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle
scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo
all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per
dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi
nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono
che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli
si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava
curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato
il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di
veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo,
la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non
volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero
infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva
dovuto penar molto a finire, perché il pilastro gli si era piegato
proprio addosso, e l’aveva sepolto vivo; si poteva persino vedere tuttora
che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi, scavando
nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio
come suo figlio Malpelo!», ripeteva lo Sciancato «ei scavava di
qua, mentre suo figlio scavava di là.» Però non dissero nulla al ragazzo
per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso
che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al
lezzo del carcame trattavasi di un compagno, e di carne battezzata. La vedova rimpicciolì i calzoni e la camicia e li adattò a Malpelo,
il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le
scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché
rimpicciolire le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella
non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi
nuovi, e gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo,
che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide
e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone,
quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava
in mano, le lustrava e se le provava; poi le mettea per terra, l’una
accanto all’altra, e stava a guardarle coi gomiti sui ginocchi, e il mento
nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in
quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche
il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero
troppo pesanti per l’età sua; e quando gli avevano chiesto se voleva
venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto
di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico
colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci
e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il
carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara.
«Così si fa», brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più si
buttano lontano».
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi
conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci;
e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a
vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con
l’avidità curiosa di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le
fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando
sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li
scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera», gli diceva, «che non
ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più fame degli
altri. Gliele vedi queste costole al grigio? Adesso non soffre più.»
L’asino grigio se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava
che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a
spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo
avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano
la schiena a badilate per mettergli in corpo un po’ di vigore nel salire
la ripida viuzza. «Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha
avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava
sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di
quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: “Non
più! non più!”. Ma ora gli occhi se li mangiavano i cani, ed esso se
ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta
denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.»
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista,
e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un
grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva
nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavorano sottoterra.
E ogni volta Malpelo ripeteva che la terra lì sotto era tutta vuota
dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto
che una volta un minatore c’era entrato da giovane, e ne era uscito
coi capelli bianchi; e un altro, cui s’era spenta la candela, aveva invano
gridato aiuto per anni e anni.
«Egli solo ode le sue stesse grida!», diceva, e a quell’idea, sebbene
avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura
d’andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà.
»
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche
sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come
la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava
sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella
luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola
di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente –
perché allora la sciara sembra più brulla e desolata.
«Per noi che siamo fatti per vivere sotterra», pensava Malpelo, «dovrebbe
essere buio sempre e dappertutto.»
La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava:
«Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera
perché non può andare a trovarli».
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo
sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di
nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
«Tu eri avezzo a lavorar sui tetti come i gatti», gli diceva, «e allora
era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi,
non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son
topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei
morti.»
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel
che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù
c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e
non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?», domandava
Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la
mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo
verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice
così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella.»
E dopo averci pensato su un po’:
«Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che gli
dicevano Bestia . Invece è là sotto, e hanno persino trovato i ferri e
le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò
in modo che la sera doveva portarlo fuori dalla cava sull’asino,
disteso fra le corbe tremante di febbre come un pulcin bagnato.
Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a
quel mestiere e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la
pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci
nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana,
e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva
animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una
volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di
sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e
dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto
fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo,
si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un
operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio
che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse,
e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi?
Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!».
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad
aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo perse dei soldi della paga
della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda,
e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma
Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava soffocasse; la sera
poi non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre né con
sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.
Malpelo se ne stava zitto e immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse
fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva
il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino
grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola,
egli borbottava:
«È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio
che tu crepi!».
E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo,
a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone
se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai
era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa,
e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che
di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliolo fosse di
quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio
perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due
mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero
Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare
quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il
suo figliolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come
quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato
sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto
per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò
che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare
le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme
con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa
sgangherate, e anche di Ranocchio sarebbe stato così. Sua madre
si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era
asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era
maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola
maritata e avevano chiusa la porta di casa. D’ora in poi, se lo battevano,
a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando
sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe
sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai
visto, e si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano
fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo
tornavano a chiudere per anni e anni. Malpelo seppe in quell’occasione
che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi
come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a
vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che
aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia
da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita,
ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci
coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava
non si fanno mettere in prigione?», domandò Malpelo.
«Perché non sono malpelo come te!», rispose lo Sciancato. «Ma
non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le ossa.»
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in
modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva
comunicare col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa
andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera
nel cavar fuori la rena. Ma a ogni modo, però, c’era il pericolo
di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia
voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse
il sangue suo, per tutto l’oro del mondo.
Malpelo, invece, non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del
mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tanto: sicché penarono
a lui. Allora, nel partire, si risovvenne del minatore, il quale
si era smarrito, da anni e anni, e cammina e cammina ancora al
buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non disse
nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre,
il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino,
e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano
la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno
paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci
grigi.


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